Queste sono le parole di Pasquale Lojacono, protagonista della commedia “Questi Fantasmi” di Eduardo De Filippo. Il dialogo-monologo è diretto al suo dirimpettaio, il Professor Santanna, e avviene mentre Lojacono, sul suo balcone, sorseggia una tazzina di caffè appena fatta.
In questa scena si esalta il rito tutto napoletano del caffè, che non consiste solo nel berlo, ma che inizia proprio dalla sua meticolosa preparazione. Come spiega il protagonista, da una macchinetta per quattro tazze se ne possono ricavare addirittura otto: questo perché, a Napoli, il caffè non è solo un modo per iniziare la giornata con più carica, ma è un vero e proprio rituale che porta alla condivisione e serve a ritagliarsi cinque minuti di tranquillità. Invitare una persona a prendere un caffè è un gesto sociale, tant’è che, nei locali storici della città, era (ed è) usanza lasciare un caffè “sospeso”, ovvero già pagato, per qualche bisognoso non in grado di permetterselo. Un'azione filantropica che rischiava di perdersi, ai giorni nostri, e che, invece, sta ritornando frequente nei bar disseminati per la metropoli moderna, restando un retaggio culturale profondo, simbolo sia dell’importanza che viene attribuita a questa bevanda, sia all’altruismo del popolo napoletano.
Per quanto possa sembrare strano, a Napoli, tra le masse, il caffè si è diffuso nettamente in ritardo rispetto alle altre città europee, ovvero solo nell’800, perché prima d’allora era considerato una bevanda d’elite. Inoltre, come e quando abbia fatto ingresso nelle vite dei partenopei è ancora un mistero.
Alcuni sostengono che il caffè sia arrivato clandestinamente dall’Università di Salerno; altri credono che tutto si collochi in tempi ancora precedenti, sotto il regno degli aragonesi, grazie ai numerosi viaggi delle navi di Alfonso di Aragona che arrivavano fino a Levante, importando le materie orientali. Un’ultima ipotesi narra del viaggio di Pietro Della Valle, romano di origine ma napoletano d’adozione, che si recò in Terra Santa in pellegrinaggio, dove avrebbe scoperto le virtù della famosa bevanda, come attestato da numerose lettere inviate ai suoi amici partenopei; numerosi anni dopo l'uomo sarebbe tornato a Napoli, portando con sè i chicchi di caffè.
Di fatto, in qualsiasi modo "l'oro nero" sia arrivato ai partenopei, e nonostante il ritardo rispetto al resto dell’Europa, è stato proprio questo popolo a sublimarne il rito.
Per tradizione, il caffè si prepara, così come fa Pasquale Lojacono nel monologo sopracitato, nella storica (ed oggi vintage) macchinetta detta cuccumella, diminutivo di “cuccuma”, ovvero vaso di rame o terracotta. Questa è un’evoluzione della "macchina a capovolgere" francese (la caffettiera "reversibile"), inventata agli inizi dell’800. È formata da quattro pezzi: il serbatoio con la maniglia e un piccolo foro, il contenitore per il caffè macinato, il filtro in metallo e il bricco con il quale si versa il caffè, dotato di manico, che si incastra nel serbatoio.
Per la preparazione, innanzitutto bisogna tostare i chicchi di caffè nel modo giusto, fino a quando non raggiungono un colore intenso e particolare che, nella commedia di De Filippo, è definito “a manto di monaco”, per poi macinarli. A questo punto bisognerà iniziare con la preparazione della macchinetta: per prima cosa, si deve riempire il serbatoio di acqua, fino quasi al foro che si trova sulla sua cima; successivamente, bisogna riempire attentamente il filtro con la polvere di caffè macinato, facendo sì che questa sia in abbondanza ma, allo stesso tempo, prestando attenzione a non compattare troppo la miscela. In seguito si monteranno i pezzi l’uno sull’altro e si riscalderà la macchinetta su un fuoco non troppo vivo: quando l'acqua sarà giunta bollore, si osserverà uscire, dal forellino del serbatoio, un sottile fumo di vapore, che segnalerà che è il momento giusto per capovolgere, con un movimento preciso e rapido, la cuccumella. L’acqua inizierà, così, la sua discesa, per effetto della forza di gravità, e passerà attraverso il filtro contenente la polvere di caffè, per poi raccogliersi nel bricco.
Da come si può evincere, preparare un buon caffè è davvero molto complesso e necessita di numerosissimi accorgimenti e premure, come la tradizione tutta napoletana (a cui accenna anche Pasquale nel suo monologo) del “cuppetiello”, ovvero del porre un piccolo cono di carta a coprire il beccuccio della macchinetta, per meglio conservare l’aroma del caffè mentre scende nell’apposito serbatoio.
Proprio questa sistematica e curatissima preparazione ha fatto sì che, agli albori del XX secolo, la cuccumella venisse sostituita dalla moderna moka che, sebbene faccia perdere molto del suo fascino alchemico al rito del caffè, lo rende sicuramente più veloce e pratico, anche se non meno preciso e meticoloso: anche con la moka, infatti, preparare “'na bella tazzulella 'e cafè” è una vera e propria arte.
Comunque sia, che sia preparato con la moka o con la cuccumella, il caffè per i partenopei è alla base della quotidianità e chiunque venga a Napoli ha l’obbligo di provarlo in una delle numerosissime caffetterie napoletane, per assaporare quello che nella cultura partenopea, come abbiamo visto, è un vero e proprio rito.
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